Sedici anni e vivere all’estero per passione

Di Francesca Niada

L’idea di trasferirmi in un Paese straniero alla mia età (16 anni), è nata dall’ambizione e dalla passione per il mio sport

Sin da quando ero piccola sogno di fare dello sport il mio lavoro e, strada facendo, ho capito che se fossi andata all’estero avrei avuto più possibilità di realizzarlo. 

Dunque la mia fermezza nelle decisioni e il desiderio di sfide sempre più grandi, mi hanno fatta arrivare in una nazione che porto nel cuore, la Germania.
In questo sono stata estremamente fortunata ad avere una famiglia che ha creduto in me talmente tanto, da lasciarmi fare un’esperienza del genere.
Quindi il vero motivo del mio cambio di vita è stato lo sport. 

L’equitazione è uno sport che ti responsabilizza parecchio, perché oltre a te stesso, hai anche un’altra vita di cui ti devi occupare, di conseguenza i concetti di vacanza e tempo libero sbiadiscono sempre più, man mano che si va avanti.

L’equitazione richiede costanza e pazienza, obbliga a molti sacrifici e autodisciplina (come d’altronde credo tutti gli sport).
Come ogni carriera agonistica ha parecchi alti e bassi che ti regalano soddisfazioni, ma anche frustrazioni.

Uno sport a cui ti dedichi, da 6 a 12 ore in scuderia tutti i giorni, tutta la settimana, ci metti il 100%, fai tutto giusto e magari va tutto in fumo per un piccolo dettaglio.  L’unica scelta che hai è andare avanti e montare un sorriso, perché il mattino seguente alle 7 devi essere di nuovo in scuderia a dar da mangiare. 

Per programmare il mio trasferimento siamo partiti cercando il maneggio, che tramite conoscenze sportive, abbiamo trovato in fretta.
Il secondo passo consisteva nel trovare una scuola per me. Me la sono sempre cavata con le lingue, ma il tedesco mi era completamente sconosciuto e iscrivermi a una scuola tedesca sarebbe stato impensabile. 

Francesca con il suo cavallo Day of Glory

Per fortuna nella città più vicina, Brema, c’è una scuola internazionale, l’unico problema era la distanza dalla scuderia: circa 50 chilometri. 

Per quanto riguarda i metodi scolastici, sono completamente diversi e non saprei dire se è più o meno difficile rispetto alla scuola italiana. Nel caso in cui la memoria non fosse un problema mi dirigerei verso la scuola italiana; mentre per quello che concerne la logica, l’elaborazione delle informazioni, le ricerche la scuola internazionale non si batte. 
Passare dallo stare 16 anni a casa con la propria famiglia non sapendo neanche di dover portare i documenti d’identità con sé, a vivere da sola, è stato decisamente il passo più grande.
La prima cosa che ho imparato a gestire è stata l’autonomia nello studio: se non ho voglia di studiare mi obbligo a farlo (applico questo metodo a parecchie situazioni e devo dire che non fallisce mai).
La seconda è stata la gestione del cibo: cucinare non mi è venuto difficile, dopo che sai alcune tecniche di base ti puoi sbizzarrire. La novità più significativa per me è gestire il cibo in relazione al denaro, o generalmente parlando, della gestione del denaro. Come fare la spesa, su cosa risparmiare e su cosa prestare attenzione, il motivo per cui qualcosa costa tanto e di conseguenza se vale la pena comprarlo.
Ciò che all’inizio mi confondeva, ma che nel giro di un mese ho gestito alla grande sono i trasporti: i tragitti li facevo con autobus, tram e treno.
Da scuola a casa mia era un’ora e mezza di bus che passava ogni due ore, dunque per il ritorno capitava spesso di avere parecchio da aspettare ed è qui che la globalizzazione mi è stata cara: tre giorni a settimana sfruttavo il caffè di Starbucks che era davanti alla fermata del mio pullman. Nonostante la bevanda in sé non sia affatto buona (non fate finta di apprezzarlo solo perché tutti dicono di amarlo), Starbucks (all’estero) è un bel posto, o almeno, io ormai mi ci sento a casa e ho persino imparato a memoria la playlist. Poi ti garantisce un buon Wi-fi per lo studio e puoi anche caricare il telefono, che a metà giornata è necessario. 

Per l’argomento «consumazioni», dal momento che costa troppo e io ero spesso lì, ho dovuto imparare ad aggirare un po’ il sistema per stare nel mio budget mensile, quindi, invece che prendere un «Double Shot Venti Latte» a 5 euro, ho imparato a chiedere un espresso in tazza grande a 1,50, per poi dirigermi al banco dello zucchero a riempire di latte il mio bicchiere. 

Penserete che i baristi mi odiassero, invece erano tutti molto cordiali, con due di loro ho persino fatto amicizia e, oltre ad offrirmi qualsiasi caffè volessi (ho portato loro due volte degli snickers per ricambiare), siamo rimasti in contatto.
Per quanto riguarda la pulizia di casa mia, le lavatrici e il cambio delle lenzuola, ci sto ancora lavorando… non fraintendetemi, le buone intenzioni ci sono, ma il tempo quasi sempre manca. Comunque dedico una sera alla settimana per pulire o sistemare, nel caso ce ne sia bisogno, ma per le lavatrici, ammetto che ancora mi appoggio a chi mi viene a trovare!

Comunque vi posso dire che per quanto possa sembrare complessa, più la vita è piena, più ti rende felice (anche solo di piccole cose semplici) e che se siete indecisi se cambiare vita e Paese, solo due cose contano davvero:
 1) l’«attaccamento emotivo» alla vostra famiglia o a casa, perché l’unico problema che vi potrebbe veramente far venir voglia di tornare indietro è la classica «nostalgia di casa». Per tutto il resto, se siete contenti della nuova location, troverete a modo vostro una soluzione.

Nella foto Francesca Niada durante una gara

Intendo dire, che quelli che tornano in Italia perché «gli manca il cibo», in realtà si riferiscono al profumo degli spaghetti della nonna in una domenica di maggio prima della fine della scuola, e non agli spaghetti in sé, perché volendo, trovi in tutti i supermercati un paio tra le marche italiane più famose.
Quindi, non bisogna accampare scuse: se tornate è perché l’amore verso la vostra identità culturale e familiare è più forte della vostra voglia di indipendenza. 

2) Se siete inclini a crisi d’identità, pensateci due volte. C’è stato un periodo in cui una professoressa di Maastricht è venuta alla mia scuola per fare degli studi sugli sviluppi che una situazione internazionale può offrire, e come interlocutrici avevano scelto una mia compagna giapponese e me, per la varietà di sfondo culturale che rappresentavamo. 

Alla domanda «Da dove vieni?», nessun problema, «Italia». «Dove abiti?», facile, «A 50 chilometri da qui». Dov’è casa tua? Lì mi sono bloccata, non avevo idea di cosa rispondere. Ho cercato di capire cosa provavo al riguardo, ma non lo sapevo… Mi sono sentita persa per un minuto, finché ho visto la mia stessa situazione ripetersi anche per la mia amica giapponese. C’è voluto un po’ prima di capire che cosa considero «casa» e ho cercato di parlarne anche con le mie compagne (provenienti da più parti del mondo come Nigeria, Nepal, America, Indonesia, etc.).Siamo giunte alla conclusione che quella frase famosa «home is where the heart is»,in realtà non potrebbe essere più vera e che quindi casa è più una sensazione che un posto fisico.
Per esempio, per me «casa» ha molteplici significati, quando sono in sella è casa, quando sto in scuderia, quando mi sdraio su un prato e guardo il cielo è casa, il posto dove sono cresciuta è casa, la mia famiglia è casa, ma anche dove ho abitato nell’ultimo anno è casa;  per assurdo ci sono luoghi che ti toccano e quindi Copenhagen o la libreria di Fulham Road a Londra sono posti dove mi sono sentita a casa. Credo che sentirsi cittadino del mondo sia una cosa che le nuove generazioni stanno vivendo maniera molto più intensa di quelle passate, e per quanto sia inizialmente difficile non riuscire a identificare una sola casa, l’essere in grado di sentirsi a casa ovunque nel mondo ti dà un grande potere di adattamento e di indipendenza.