Di Arnoldo Mosca Mondadori e Simone Mosca
Oggi piove ma pazienza, è quasi mezzogiorno, è martedì, e come sempre avviene da qualche anno a questa parte a Milano, poco prima delle dodici si scende in strada per la pausa. Non la pausa pranzo. Si mangerà prima o poi, certo, ma quel che conta prima di tutto è suonare, conta la musica. E oggi come ogni mezzogiorno si dice dunque, che si fa la pausa musicale.
Dal Policlinico è già scesa la famosa banda di fiati dei neurochirurghi che ai giardini di Guastalla si imbatte negli urologi assorti nei bassi degli ottoni, mentre gli specialisti maxillo-facciali e gli otorinolaringoiatri poco lontano, intonano con rapito ardore un Te Deum di prova. E ancora, vicino ai medici, si esercitano alle percussioni già da un quarto d’ora, ex giudici, avvocati, magistrati, che nel fu palazzaccio del Tribunale ormai amministrano il nuovo codice del perdono.
Senza debiti non c’è più banca, senza soldi Dio solo sa cosa del mondo valga. Ci si raccoglie dunque a riflettere insieme agli sportelli dove un tempo si firmavano cambiali dei massimi sistemi, ma alle 12 persino gli ieratici filosofi – che si occupano alle postazioni lasciate libere dai colletti bianchi di rispondere a dubbi esistenziali – partecipano al coro.
A mezzogiorno si svuotano le scuole, gli studi, gli uffici, le case ovunque, e in strada scendono i bambini, i malati, gli anziani, i neri, i cinesi, gli zingari, gli ebrei, i lusitani, i sinti, i biondi e i castani, i trans e i musulmani, i carnivori, i bibliofili, i vegani, e la musica della città sale.
Si suonano fisarmoniche, chitarre, pianoforti e bidoni, e chi non sa o non può farlo, canta, chi è muto ascolta, chi è sordo ride.
Si leva un suono sgraziato e solenne, una musica mai uguale. Beethoven in piazza Diaz, accenni di Mozart nel verde irsuto dei cespugli ai confini di Lambrate, Lucio Dalla in riva all’Idroscalo. Sfera Ebbasta tira ancora in zona Forlanini, in Garibaldi va Chopin, piacciono antichi madrigali sui Navigli.
Come si fa a spiegare il futuro, il 2030 a chi è venuto prima, senza raccontargli tutto dall’inizio?
Era il 2021 e un asteroide del diametro di 30 chilometri era stato avvistato, all’improvviso, all’inizio di gennaio. La paternità della scoperta viene fatta risalire a un inserviente a termine in attesa di assunzione, incaricato all’epoca della manutenzione della specola di Brera. «Una sera arrivo e vedo un coso strano. “È una macchia, se la vedo io, così, al volo, è per forza una macchia”, penso lì per lì. E allora pulisco l’obiettivo dell’aggeggio più volte, sfrego ancora e ancora, insisto ore. Niente. Allora chiamo i colleghi, chiedo consigli, applico detergenti più aggressivi. Ma il sasso, la macchia, rimane sempre lì, dentro al telescopio un difetto ottico, uno sporchino nei pressi della Luna. Decido alla fine di chiamare mio cugino Santi Alfieri al sindacato. “Cosa devo fare?”, chiedo. “Lo dico o non lo dico che c’è una macchia?”, ripeto. Non so voi, ma mi sembrava normale l’angoscia, potevano darmi la colpa e non ci si gioca per un batuffolo di polvere il primo posto in graduatoria, che aspetto da una vita».
La scoperta non colse di sorpresa la Nasa, l’Esa, le agenzie spaziali, cui il bolide celeste era noto da tempo e che da tempo avevano informato in segreto i governi della collisione, pressoché certa, prevista per la notte del 10 luglio 2021.Probabile punto d’impatto: Milano. Ma non faceva alcuna differenza. Dovunque fosse cascato il gigantesco masso spaziale, sarebbe stata l’apocalisse. Per amor di cronaca, è giusto dire che il planetoide fu battezzato Rosario Cazzaniga, in onore del primo osservatore braidense.
Per sette mesi parve che l’umanità avesse deciso di non attendere l’impatto per estinguersi, preferendo invece andare alla deriva gozzovigliando nel caos. Nel mondo non vi fu più legge, a Milano non vi fu più legge. Anche perché nel frattempo, convinta da accurati calcoli che la zona meno esposta ai danni dell’asteroide sarebbe stato l’entroterra del Mozambico, l’esigua minoranza planetaria del potere – e cioè le più alte autorità politiche e i titolari delle più cospicue fortune finanziarie – provvide a scavare nel Paese africano un’imponente rifugio sotterraneo. Una città di cunicoli dove i privilegiati scomparvero in anticipo già i primi di giugno abbandonando i loro incarichi.
Arrivò l’estate, arrivò il 10 luglio 2021, e tutto si quietò, come quando l’agonia è prossima al mattino. A pochi istanti dalla fine, attorno alle 23 a Milano si registravano 27 gradi, ma l’afa del giorno era stata spazzata via da una debole brezza sopraggiunta da est. Ronzavano nubi di zanzare, come un incenso l’Autan benediva le estreme preghiere, mentre un lugubre sole notturno illuminava la notte a giorno. L’asteroide incendiato dal sole fece brillare gli ultimi baci, rischiarò il profilo compatto della folla muta, fece più rossi i Negroni dell’estrema sbronza di chi, nell’ebrezza, addolciva la fine del mondo. «Non prende più», constatarono in tanti ormai incapaci di cogliere la verità del dramma se non nei propri cellulari. E all’improvviso alle 23,47 in punto, ora italiana, fu il silenzio. L’asteroide Cazzaniga era ormai così prossimo al creato che ogni vita della Terra si sentì attratta per qualche secondo verso l’alto. Esplosero i satelliti in orbita come fuochi d’artificio e ogni capello e ogni filo d’erba, ogni pulviscolo e ogni peluria, si tese all’insù. E poi ogni cosa ricadde allo scoppio di un bagliore accecante. Buio.
Il bolide aveva centrato la Luna disintegrandone un quarto e per giorni frammenti del satellite caddero come neve celeste, sciogliendosi al contatto con l’atmosfera. Un miracolo o il caso, la mano di Dio o una fortuita carambola celeste. In ogni caso Cazzaniga deviò. Salvi.
Ai milanesi piace ricordare come i portieri, il personale dell’Amsa, i negozianti, così come alcuni semplici volenterosi, insieme ai carcerati liberati la notte precedente per pietà e che mai più sarebbero stati rinchiusi, già la mattina dopo la scampata fine del mondo si fossero svegliati alle 5 per scopar via dai marciapiedi il sottile strato di nevischio lunare che in poche ore si era accumulato. Prima di tutto, cura e decoro.
Fu così che finì e ricominciò il mondo, fu così che nove anni fa la notte di San Lorenzo diede inizio all’anno zero. Si ritrovò quel che era andato perduto, si abbandonò quel che a lungo era stato un peso. Chi avrebbe mai scommesso di nuovo sull’uomo? Come raccontare a chi ancora non la vive la fiaba della nuova era?
Miliardi di persone si erano sentite sparire insieme e insieme si erano sentite richiamate alla vita. Si andava dunque avanti, eppure nulla poteva essere più uguale. Era sparito il denaro, si era dissolto ogni algoritmo del profitto, nessuna traccia di credito, nessuna memoria di debito. Subito si mise a punto un’economia di prossimità, una lunga catena di servizi umani. Mi serve un’auto. Eccola. Io vorrei però tre chili di carote. Prego, prenda pure. E così via, un bene alla volta, un’utilità alla volta. Doveva essere soltanto una soluzione d’emergenza, ma venne fuori a fine 2022 che la bilancia commerciale dell’economia globale faceva segnare una perfetta parità.
Oggi non esistono più banconote ma soltanto bigliettini d’auguri, note di scambio, ringraziamenti e promesse di favori. E a Milano, così come altrove, la notte fuori dai portoni è buona norma lasciare a terra i portafogli, casomai qualcuno avesse dimenticato il proprio a casa e gli servisse una cortesia da barattare per un taxi. Nemmeno la carta d’identità è più un problema. «Prenda pure la mia se crede», si usa dire se a qualcuno proprio serve un documento. La proprietà riguarda soltanto gli affetti, anche le case sono un ormai un bene effimero, condiviso, e difatti si trasloca spesso. Mai per necessità, sempre per sfizio. «Andiamo a Osaka un paio d’anni, mi raccomando i nuovi vicini giapponesi», potrebbe suggerire una famiglia una mattina salutando i condomini. Niente mura, niente confini, niente guerre perché non esistono bottini, niente ladri, a chi vuole prendere, basta dire «per piacere».
La politica c’è ancora, ma soltanto un giorno l’anno. Si invia un elenco di tre desideri ogni notte di San Lorenzo all’ufficio centrale del Ministero della Speranza, l’unico rimasto, dove un laborioso scrutinio lungo un mese, individua nei sogni più spesso ricorrenti le linee di sviluppo per l’anno seguente.
Rimane solo un unico problema da risolvere oggi: il dramma del Mozambico.
Sbucati al sole il giorno dopo il passaggio di Cazzaniga, i leader e i miliardari di ogni Paese, che fino a qualche mese prima erano proprietari di tutto, scoprirono di non avere in tasca più niente. È da allora che bande di ex manager, finanzieri, famosi presidenti, anziani senatori, starlette, visti respinti i tentativi iniziali di restaurare i loro imperi, si disputano il regno mozambicano regredito a un sanguinoso medioevo. Riuscì a fuggire nel 2023, tra i pochi, Matteo Salvini. Approdò esausto e scavato a Lampedusa una sera di giugno a bordo di una barca accanto ad alcuni tremanti speculatori ceceni. Come sempre travestito, quella volta indossava una pelle di zebù. Subito soccorso, gli venne posta una semplice domanda. «Scusi, ma perché non ci ha avvertiti alla partenza? La venivamo a prendere, bastava chiedere».