«Venti milioni di anziani nel 2050. È necessario trovare un accordo»
Di Massimo Mosconi
Nel 2050 gli anziani in Italia saranno venti milioni, quasi un terzo della popolazione. Il trend dell’invecchiamento ci mette al secondo posto, dopo il Giappone, per velocità e intensità. La nuova longevità ha sovvertito la struttura della famiglia, mentre aumenta il numero di persone non autosufficienti: un milione e 600mila ultra sessantenni non vivono, sopravvivono. Il sistema sanitario rischia il collasso: troppi ricoveri, poca medicina sul territorio. La politica parla di rottamazione. Servirebbe invece una riconversione per rendere attiva e produttiva la conquista della longevità. Il geriatra Carlo Vergani e il giornalista GianGiacomo Schiavi hanno scritto un libro: Ancora giovani per essere vecchi. Dal loro dialogo emerge il quadro di una rivoluzione democratica e sociale che rischia di trasformarsi in un’emergenza. Quali sono i limiti e le conseguenze dell’innalzamento dell’età? Ci sono cure contro le malattie degenerative? Si può ristrutturare il mercato del lavoro senza scontri generazionali? Si può ricostruire un nuovo patto generazionale Giovani-Vecchi?
Professor Vergani, Lei vede un nuovo patto generazionale?
«È necessario. Altrimenti saremo vicini alla catastrofe sociale. Dobbiamo studiare bene le nuove esigenze dei giovani, ma anche degli anziani. La politica deve poi intervenire, mediare, legiferare. È vero che senza giovani non c’è futuro. Ma anche con troppi vecchi in precarie condizioni si affonda».

Quindi?
«Bisogna lavorare più a lungo, dobbiamo convivere sotto le stesso tetto per risparmiare sui costi fissi, i pensionati venderanno le case per andare a vivere in affitto. Ognuno di noi può essere figlio, genitore, nonno».
Anziani che dipendono sempre di più…
«Sì, l’invecchiamento è destinato a salire, le pensioni vengono tagliate e la disoccupazione giovanile aumenta. Dobbiamo ragionare. Se vogliamo garantire una pari opportunità alle generazioni future, dobbiamo intervenire subito. Dobbiamo prepararci a una nuova convivenza Giovani-Vecchi».
Lei come la immagina?
«Come una staffetta, un passaggio di saperi. Non esiste più la categoria attivo-inattivo, esistono modi diversi di vivere con il proprio tempo. Si può andare in pensione e lavorare, un pò meno magari, ma con intelligenza e soprattutto con disponibilità verso i più giovani. Non ci deve essere competitività, ma lealta. È un messaggio di fiducia».
La crisi demografica ci costringe a ripensare tutto
«È così. Dal servizio sanitario nazionale, che dopo quarant’anni deve prendere in considerazione la nuova longevità e l’assistenza sulla porta di casa, fino al welfare che non può più essere garantito solo dallo Stato, ma ha bisogno del Terzo settore e dei volontari. Per arrivare al lavoro…».
Definitivamente cambiato
«Oggi lo scontro è fra garantiti e depotenziati. Barriera assurda, che penalizza i più giovani e lascia attivo, in certi casi, il potere gerontocratico. Bisogna creare le premesse per superare queste barriere e dare ai giovani la possibilità di metter su famiglia e crescere i figli, per evitare l’inverno demografico. Un compito della politica, ripeto, un obiettivo di governo».
In un Paese che cresce i posti di lavoro non sono fissi, ma aumentano. Quindi ci sarebbe posto per tutti, giovani e vecchi. Si può essere competitori, ma mai nemici?
«Sì, dobbiamo collaborare. Nel 2012, anno europeo dell’invecchiamento attivo della solidarietà tra le generazioni, il Parlamento europeo ha richiamato gli Stati ai propri doveri: l’economia e la società hanno bisogno, per raggiungere certi obiettivi, delle esperienze, dell’impegno e del patrimonio di idee di tutte le generazioni. La rottamazione non è una risposta e non è un programma: è la scorciatoia per evitare di affrontare i problemi. Dobbiamo pensare ai vecchi, senza slogan, prima che sia troppo tardi».

Professor Vergani, chi è giovane oggi? E quando si diventa anziani?
«I segnali sono tanti. Il facile affaticamento, la difficoltà di recupero, la resistenza al cambiamento. E poi c’è’ lo specchio, basta guardarsi: i capelli, la pelle, il viso, le mani… Da vecchi si diventa invisibili, mi ha detto un giorno Valentino Bompiani. La sfida della vecchiaia comincia così. Lentamente si esce di scena. Truccare le carte con un falso giovanilismo non serve. Anna Magnani diceva al suo visagista: le rughe non coprirle, ci ho messo una vita a farle venire. Gli anziani non sono i sessantenni. Anzi, oggi spesso sono più tonici ed efficienti di prima. Eurostat, Onu e ISTAT definiscono anziano un ultrasessantacinquenne. Ma questo è un dato anagrafico con scarso riferimento biologico».
Lei che età limite ha fissato?
«A 75 anni si è anziani. A 80 si è giovani-vecchi. A 85 si è vecchi. Ma a quell’età Montanelli ha fondato un giornale e Umberto Veronesi progettava la Città della Scienza…».
Una società che invecchia troppo, si dice, è anche una società che muore…
«La longevità è una conquista della civiltà. Tocca a noi trasformarla in una risorsa e non in un’emergenza. Oggi l’indice di vecchiaia, cioè il rapporto tra gli ultra sessantacinquenni e i giovani di età inferiore ai 15 anni, è pari a 148: ci sono 148 anziani ogni cento giovani».
Non c’è più ricambio generazionale. Si fanno meno figli. Importiamo stranieri…
«È così. Nel 2012 i nati in Italia sono stati 534.000 e i deceduti 612.000: il saldo naturale della popolazione è negativo, la popolazione residente nel nostro Paese cresce solo grazie alla dinamica migratoria. Si fanno meno figli perché non c’è l’aiuto alla famiglia. Inoltre sempre più donne entrano nel mondo del lavoro. Senza aiuti e senza redditi alti è dura tirar su i figli. È in corso il “meticciato sociale”. Nel 2013 gli stranieri residenti in Italia erano quasi 4,4 milioni, il 7,4 per cento della popolazione residente, con un’età media di 32 anni, dodici anni inferiore a quella italiana. Oggi su cento bambini che nascono, venti sono stranieri, purtroppo verrà riconosciuta loro la cittadinanza solo dopo i diciotto anni».