Milano come Torre Maura
Di Roberto Pesenti
Fare presto. Fare bene, per evitare nuove guerre tra poveri nelle periferie, il noi contro loro. È il pensiero che mi coglie ogni volta che passo davanti al piccolo edificio del «Pane Quotidiano» di viale Monza e incrocio le file di uomini e donne, italiani, stranieri, Rom, che aspettano la distribuzione gratuita di pane, frutta, verdura e bevande. Nell’era in cui l’accelerazione del tempo è un fattore estremamente rilevante, una delle cause profonde dei problemi sociali di Milano sta nelle diverse velocità della metropoli. Il vuoto da chiudere è il tempo sfasato tra chi corre avanti per difendere consumi e stili di vita acquisiti, e chi arranca in cerca delle necessità primarie quotidiane: il cibo, un tetto, la salute, la sicurezza.
In questo scenario di periferia Nord Est di Milano, nell’autunno scorso il Municipio 2, su sollecitazione degli abitanti infuriati, ha annunciato la rimozione della storica fontanella, uno dei tanti «draghi verdi», davanti al «Pane Quotidiano», perché «era oramai utilizzata solo per abluzioni, docce, bidet, da extra comunitari e senza fissa dimora». In altri quartieri, via Padova, Piazzale Selilunte, la microconflittualità tra cittadini è in agguato per le montagne di rifiuti accumulati da chi non fa la raccolta differenziata, per l’illegalità diffusa dello spaccio di droga che si fa risalire agli immigrati, per la catena di furti attribuita ai Rom.

Mi chiedo se anche a Milano, prima o poi, potrebbe accadere qualcosa di simile a ciò che è successo, odiosamente, a Torre Maura, a mezz’ora dal centro di Roma, dove una ventina di abitanti, appoggiati da gruppi neofascisti di Casa Pound, hanno preso a calci il pane che doveva essere distribuito a 77 persone di etnia Rom, tra cui 33 bambini e alcune donne incinte.
Ho vissuto sulla mia pelle la città a più velocità, perché per oltre dieci anni, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, nell’infanzia e adolescenza, sono cresciuto in una traversa tra viale Monza e via Padova, in una casa popolare segnata dalla conflittualità tra i residenti e le famiglie immigrate da varie parti d’Italia, come la mia, spinte dalla speranza di un futuro migliore. Dall’inizio del 2019 sono «tornato a casa» come appartenente a una catena di associazioni locali del Terzo Settore che ha deciso, con intelligenza e generosità, di aderire alla campagna della Fondazione Cariplo, (una rete che riguarda 25 quartieri di Milano ed è indirizzata a 21mila bambini in condizioni di povertà), per trovare nuovi percorsi e soluzioni per aiutare i minori poveri e le loro famiglie.
Dopo incontri personali, chilometri a piedi e in auto e alcune visite a scuole della zona Nord – Est, mi pare confermata la tesi che il principale terreno di confronto sociale, a Milano, nasca dalla forma che ha assunto la sua storia urbana. Un’eredità che pesa sulle condizioni di vita delle persone, particolarmente in quartieri come Adriano-Monza-Padova, Corvetto, San Siro, Gratosoglio, Calvairate, Quarto Oggiaro, con edifici d’epoca mal ristrutturati o quartieri concepiti negli anni Sessanta e Settanta come satelliti poco collegati, senza servizi, pochi negozi, spesso con insediamenti di edilizia popolare degradati. In queste periferie il clima di paura e incomprensioni è strisciante, tra italiani e immigrati, tra anziani e giovani, tra abitanti vecchi e nuovi delle case popolari, tra chi ha a disposizione servizi sociali, spazi pubblici e chi non ne ha affatto. In alcune scuole elementari e medie dell’area di viale Monza, il vero fronte dove si incontrano le diversità, dove sono entrato per presentare il progetto «QuBì Monza, la ricetta contro la povertà infantile», ho visto all’opera dirigenti scolastici e insegnanti eccezionali che governano classi di alunni dove la percentuale di immigrati è molto superiore al sessanta per cento, la conoscenza dell’italiano è molto bassa; ci sono bambini che a casa non hanno spazi per studiare, hanno problemi di igiene personale, vivono relazioni familiari problematiche, mangiano male, non fanno sport, hanno genitori senza lavoro.

Chi lavora da anni su questi focolai potenziali di disagio e marginalità, è convinto, giustamente, che si possa creare sviluppo, coesione e identità in vari modi: utilizzando il nuovo Piano Regolatore del Comune che spinge per mescolare attività nelle periferie, cambiando le regole per favorire investimenti, evitando la creazione di nuovi ghetti per decine, centinaia di persone, che assieme ad un tetto, portano anche un’ipoteca per la vita; contando sui privati, le grandi istituzioni, come ad esempio la Fondazione Prada, che fa da volano alla rinascita del territorio fra Ripamonti e Corvetto; valorizzando il lavoro dei ragazzi riuniti intorno al brand «No.Lo», North of Loreto, che ho incontrato lungo viale Monza, comunità nata virtuale su Facebook e diventata fisica mescolando relazioni tra nuovi e vecchi abitanti, commerci e servizi volontari, sport, musica, tempo libero, attività culturali e business.
Ho visto in atto il nuovo spartito di rammendo sociale per prevenire la Torre Maura a Milano, ma anche il grande rischio, molto presente nei nostri tempi di rifiuto della gradualità, dei tempi lunghi necessari a raggiungere gli obiettivi di riforma sociale. Le lentezze temporali degli interventi, unite alla politica delle ruspe, dello scaricabarile, ma anche delle promesse irrealizzabili, aumentano i risentimenti tra gli integrati e gli esclusi di Milano, fattori che incombono pesantemente su chi si mette in gioco, su chi ci mette la faccia per creare un sistema urbano tollerante e cooperativo.