Intervista impossibile a Michele Alboreto

Di Cinzia Farina

Illustrazione di Emanuele Lamedica


Che emozione, eccomi nella casa di Michele Alboreto, il grande pilota di Formula 1, il più grande pilota italiano degli ultimi decenni. Ogni oggetto parla e si respira l’odore del «posto sicuro» di questo grande campione, il luogo dove si ricaricava prima della partenza per una gara. Nadia, la moglie, sua compagna da una vita, ci parla di lui anche solo attraverso lo sguardo. 

Sei stato un campione di Formula Tre nel 1980, poi in Formula Uno hai vinto cinque Gran Premi e hai sfiorato la conquista del titolo mondiale nel 1985: qual era il tuo allenamento fisico e mentale per riuscire in tutto questo?

«Sono sempre stato una persona molto determinata. Ho iniziato dal nulla, nutrito solo della grande passione di guidare le macchine. L’ostinazione mi ha portato piano piano a scalare le piccole vette della Formula Italia, Formula Monza, Formula Tre, per poi approdare alla Formula 1. Questa mia volontà supportava un allenamento continuo: correvo, facevo jogging e avevo una piccola palestra in casa. Usavo addirittura un casco da corsa dove avevo attaccato i pesi e facevo ginnastica con quello in testa. Quando ero ragazzo, infatti, ogni anno dovevo cambiare camicie, perché il collo si ingrossava a dismisura. Credere con tutto me stesso in quel sogno, la preparazione fisica che non cedeva mai di fronte alla stanchezza e la tranquillità intorno della mia famiglia, mia moglie, le  mie due figlie, hanno fatto diventare quella mia speranza, una realtà concreta». 

Sappiamo che sapevi fornire precisi suggerimenti per migliorare le prestazioni della vettura ad ingegneri e meccanici all’interno del tuo team. Dove ti «nutrivi» di queste dettagliate informazioni? 

«Oltre a essere bravi piloti bisogna anche mostrarsi attenti collaudatori.  È inoltre necessario trasmettere le sensazioni che si hanno in prima persona mentre si guida, a tutti coloro che lavorano per la messa a punto ottimale della macchina». 

Hai avuto un’infanzia tranquilla e dopo il diploma hai subito iniziato a lavorare presso un’azienda. Sei però sempre stato attratto dalle corse e hai iniziato i primi passi a cavallo di una motocicletta. Finalmente nel 1976 hai gareggiato su una vettura, costruita da te stesso con l’aiuto di amici. Ingegnere e pilota? 

«Quando ero un ragazzo non avevo i mezzi economici per acquistare una macchina, quindi mi sono dovuto ingegnare a costruire la mia prima automobile con l’aiuto di amici meccanici».

Nel settembre del 1983 ti venne assegnato il premio Varzi, destinato al pilota italiano più promettente e alla fine del mese fu ufficializzato il tuo passaggio alla Ferrari, che già da diverso tempo ti aveva notato. Ricordi quel giorno nella casa di Maranello e la stima che aveva per te l’ingegner Enzo Ferrari?

«In effetti è stato un anno ricco di emozioni! Enzo Ferrari mi aveva contattato, ma avevo in corso un contratto con la Tyrrell e quindi ero vincolato. Poi nel 1983 arrivò quella gioia immensa. Sono entrato alla Ferrari e ho conosciuto il fondatore del “cavallino rampante”. L’ingegner Ferrari era una vera leggenda nel mondo automobilistico. Non si trattava di una persona facile, ma tra di noi c’è sempre stato un rapporto particolare. Un legame fatto di stima, probabilmente perché mi reputava una persona vera, semplice, non modificata dal successo». 

In un mondo dove tutti ostentano, soprattutto in certi ambienti sportivi, tu sei rimasto una persona riservata, con una moglie dall’animo fino, due bravissime figlie e hai la stima di moltissimi colleghi. Come hai fatto a non farti mai contagiare? 

«Penso che questo dipenda molto dall’educazione che hai ricevuto e dal tuo carattere. Sono sempre stato una persona che non si è mai montata la testa e ha vissuto questa professione con una passione sana, con la voglia di fare sempre meglio. Sapevo, per esempio, che i miei fan erano lì per me, quindi li dovevo rispettare. Non mi sono mai negato alla richiesta di un autografo o di un semplice saluto. Ho vissuto questo lavoro con semplicità, felice e fortunato per essere riuscito a trasformare la mia passione nella mia professione. Sono riuscito a vivere con semplicità anche in un mondo a volte molto sfarzoso. Penso che sia importante non farsi condizionare dall’ambiente esterno e rimanere quello che siamo dentro. Essendo una persona ironica in un ambiente altisonante, magari vedevo cose sopra le righe, ma le vivevo in modo spiritoso. Il mio senso dell’umorismo mi ha sempre aiutato a sdrammatizzare». 

Illustrazione di Max Ramezzana

Dai tempi della scuola, Nadia, che in seguito è diventata tua moglie, ti accompagna sempre ad ogni gara: é lei una delle tue forze motrici?

«Sicuramente mia moglie mi ha aiutato molto: avendo io un carattere un po’ esuberante e combattivo, lei era l’anima dolce che riusciva a tranquillizzarmi e mi teneva con i piedi per terra. Ci bilanciavamo, come lo yin e lo yang. Prima e dopo i Gran Premi lo stress è altissimo ed è fondamentale trovare quel “posto sicuro“. Giocare con le mie bambine e stare con Nadia, erano loro la mia “squadra” per ricaricarmi».

So che nel tempo libero suoni il basso e sei appassionato di blues. Coltivi inoltre le tue passioni per l’astronomia e per i libri di fantascienza. Dove trovi il tempo? 

«Sono un uomo dai molteplici interessi! Ho portato molte volte le mie bambine e mia moglie in montagna a guardare con il telescopio Saturno e le eclissi. All’epoca suonavo il basso e la batteria. Spesso il mare riusciva a rapirmi e “navigavo” con la mia barca». 

So che l’incidente di Ayrton Senna ti ha scosso molto: non hai mai pensato di smettere veramente? E tua moglie cosa ti diceva? 

«Non ho mai pensato di smettere, perché sono sempre stato animato da questa grandissima passione, correre era la mia vita e noi non pensiamo mai che ci possa capitare qualcosa. Correre è dentro di noi, è una cosa naturale come camminare. Mia moglie ha subìto tantissimo lo stress, le partenze per lei erano terribili, ma non mi ha mai chiesto di smettere. Mi amava troppo per farmi rinunciare al sogno della mia vita».

Dopo il tuo incidente sul circuito di Lausitzring dove stavi eseguendo dei test su una Audi R8, hai iniziato a guardarci da un’altra angolazione e noi immaginiamo che continui a correre, spinto da quella grandissima passione. Cosa consigli ai ragazzi e ai loro sogni? 

«Di essere molto determinati e anche se un sogno sembra irrealizzabile, spesso con la forza di volontà si riesce a concretizzarlo. Non mollare mai, continuare a crederci. Senza quella testardaggine, quel semplice ragazzo della periferia milanese, che non aveva grandi mezzi, non sarebbe arrivato in Formula 1. Sono stato vicepresidente dell’ACI e ho ideato la Formula Azzurra, trofeo “Michele Alboreto“, nell’ambito del progetto giovani, per permettere ai talenti emergenti di mettersi in luce. Ogni anno viene premiato il migliore. Bisogna aiutare i ragazzi a realizzare i loro sogni!».  

Nel giardino del centro culturale Cascina Grande del comune di Rozzano, dove hai trascorso l’infanzia, è stata eretta una statua per te e nel 2006 il comune ti ha intitolato una piazza, oltre a kermesse sportive in tua memoria, mostre, retrospettive e tante iniziative di beneficenza. Qual è il segreto per essere così amato e continuare a vincere anche da un’altra pista? 

«Sono sempre stato disponibile e riconoscente con il mio pubblico, con chi mi fermava per strada o al ristorante. Se ero su quella macchina lo dovevo anche a quelle persone e loro percepivano questa mia riconoscenza. Ero come uno di loro, la semplicità del ragazzo della porta accanto. Penso che la gentilezza sia il passe-partout per aprire la porta dell’empatia e che alla fine vince e resta sempre».