Integrazione e amicizia

I bambini in oratorio sono tutti uguali

Di Chiara Malinverno

Quando viene detto che l’integrazione non è possibile, penso a ciò che accade ogni settimana in un oratorio dell’hinterland milanese. Ragazzi egiziani, filippini, sudamericani e italiani si trovano insieme per fare una cosa semplice: studiare. Chi vuole imparare meglio l’italiano, trova qualcuno ad aiutarlo. Chi ha bisogno di un aiuto in matematica, trova chi sa insegnargliela. Nessuna differenza fra di loro, solo armonia e collaborazione. Semplice, no? No, se questo accade solo fra le mura degli oratori. Nella realtà quotidiana quell’armonia si perde, soprattutto se a parlare sono gli adulti. Gli egiziani parlano solo con i connazionali e così fanno anche gli italiani, i filippini e i sudamericani. I sociologi definiscono questo fenomeno «paura del diverso». Un fisiologico timore nei confronti di chi non conosciamo.

SE NON LO CONOSCO È DIVERSO

Ma siamo sicuri che chi non conosciamo sia diverso? Perché chi viene da lontano deve essere diverso? Vi porto l’esempio di Maria, egiziana, si è trasferita in Italia qualche anno fa. In Egitto frequentava una scuola prestigiosa, talmente selettiva da prevedere un test già all’asilo. Oppure potrei raccontarvi di Ibrahim, anche lui viene dall’Egitto e, come qualsiasi dodicenne, preferisce di gran lunga il calcio allo studio. O ancora di Nonato, che arrivato in Italia un anno fa dalle Filippine, fatica a parlare italiano, ma ha una voglia matta di impararlo. Si appunta le parole che non conosce e di ognuna scrive anche la traduzione in inglese, lingua che sa benissimo. Ecco, io non credo che Maria, Ibrahim o Nonato siano diversi da me e sono sicura che non lo saranno nemmeno da adulti. Perché allora è possibile pensarlo? Perché si può essere legittimati a vedere chi viene da lontano come un pericolo o peggio una minaccia?  Perché mio padre può dire che gli arabi hanno un’indole delinquente o semplicemente dichiarare di averne paura? Si potrebbe parlare di ignoranza, ma sarebbe solo una scusa. Forse siamo superficiali, stupidi, piccoli oppure semplicemente abbiamo bisogno di incolpare qualcuno. Io non voglio pensare a Ibrahim, Maria o Nonato come a un pericolo, né vederli come una minaccia. Voglio pensare a loro per quello che sono davvero.