Intervista a Stefano Mancuso

Le piante? Nulla di meglio sulla Terra a cui ispirarsi

Di Emanuele Bignardi

Il treno viaggia a 300 chilometri all’ora, il paesaggio cambia velocemente, i campi si alternano a piccoli paesi. Il sole accarezza la terra e il mio primo pensiero è quello che l’uomo ha delle enormi capacità e il progresso tecnologico ne è la prova. Credo anche che sia estremamente fortunato a vivere su un Pianeta così bello e accogliente. La voce di Giancarlo, il direttore del Bullone, mi riporta alla realtà, strappandomi dal flusso dei miei pensieri. Il nostro viaggio ha una meta ben precisa, Firenze, dove incontreremo una persona speciale, un visionario secondo molti, una voce fuori dal coro che non ha paura di esprimere le proprie idee, non senza preoccupazioni. Lo spunto per questa intervista viene da una tragica constatazione: le città sono ormai soffocate dallo smog e dal cemento. L’uomo, che pensavo pieno di potenzialità e qualità, sta distruggendo – non troppo lentamente – il proprio ambiente, in modo insensato e anti-evolutivo. La campagna che scorre sotto i miei occhi attraverso il finestrino del treno, è minacciata da un fumo grigio e da un’aria irrespirabile. Una sensazione di soffocamento e di preoccupazione mi prendono alla gola, ho bisogno di una nuova speranza, di sapere che ci sono altri occhi con una nuova visione. Sarà un uomo ad aprirmi la mente, attraverso una rivoluzione senza armi e senza violenza. Una rivoluzione «verde».

Un nome, Stefano Mancuso. Laureato in Agraria e con un dottorato in Biofisica, il professor Mancuso dirige l’International Laboratory of Plant Neurobiology all’Università di Firenze. Il suo ufficio è una piccola stanza al primo piano, dove convivono libri, pile di articoli scientifici e piante. Se ripenso a quello studio, la prima cosa che mi viene in mente è il verde delle piante, che il professore ha disposto sulla scrivania, sul pavimento e negli angoli della stanza. Ci accoglie con un sorriso, una stretta di mano calorosa e forte che di nuovo mi fa venire in mente gli alberi. Rimango immediatamente colpito da un suo disegno che assomiglia al tempio di Angkor Wat, in Cambogia, dove la natura e le piante sono più potenti delle opere umane. 

Iniziamo la nostra chiacchierata dal tema dello smog e da come l’uomo ha creato le città.

 Professor Mancuso, qual è la sua visione della città del futuro?

«Parlerei di presente piuttosto che di futuro. Un nuovo progetto per le città è necessario. È a dir poco urgente ripensare come costruiamo i luoghi urbani, integrando in modo indissolubile le opere umane e la natura. La mia è un’idea radicale: il modello attuale di città è sbagliato e primitivo, perché si basa sull’esclusione della Natura dalla vita dell’uomo e questo è anomalo. L’uomo è una specie recente e solo negli ultimi secoli si è costretto a vivere in ambienti artificiali, che lo hanno allontanato dalla sua aspirazione naturale, cioè vivere in mezzo alla Natura.

Cosa ne pensa delle misure attuali impiegate per diffondere il verde nelle città e cercare di ridurre l’inquinamento?

«Quello che si sta facendo non è abbastanza; i dati sulle emissioni di CO2 registrano un aumento esponenziale negli ultimi decenni, nonostante ci sia un obiettivo comune sulle loro riduzioni. Il problema è metodologico e di approccio: non ha alcun senso piantare alberi in zone non inquinate; le piante svolgono il “lavoro” di spazzini dell’inquinamento in modo tanto più efficace quanto più vicine alla sorgente dell’inquinamento stesso. A mio parere, le politiche di compensazione delle emissioni sono una truffa. Alcune aziende o Nazioni che inquinano, pagano altre aziende o Nazioni per piantare alberi in zone poco o per nulla inquinate senza alcuna utilità».

Illustrazione di Stefano Mancuso:  OLEA EUROPAEA L.

Immaginiamo quindi la città ideale: come dovrebbe essere?

«Non esistono delle limitazioni tecniche che impediscono di ricoprire ogni superficie della città con alberi e piante. Dovremmo piantare alberi sui tetti, sui balconi, dentro i palazzi. L’architettura recente si è scordata di includere le piante nella progettazione degli spazi: nessuno, infatti, prevede alberi negli appartamenti o negli androni degli edifici, come potrebbe essere. Bisogna ripensare le nostre comunità inserendo le piante e gli alberi in una compenetrazione assoluta. Entro il 2050 la maggioranza della popolazione della Terra sarà concentrata nelle città che rappresentano solo il 2% della superficie del pianeta, ma contribuiscono alla quasi totalità dell’inquinamento».

Questa visione di città ricorda molto i templi di Angkor Wat in Cambogia. Ma quali sarebbero i vantaggi di questa rivoluzione?

«Innumerevoli. Il primo, in ordine di importanza e immediatezza, è la riduzione drastica del livello di inquinamento. Infatti, come dicevo, le piante hanno la capacità di neutralizzare gli agenti inquinanti. Di conseguenza, a corollario di un ambiente più salubre, non sarebbe più necessario bloccare il traffico, si perderebbero meno giornate lavorative e i costi per l’abbattimento delle emissioni sarebbero inferiori».

Quali vantaggi diretti sulla salute umana derivano da una «convivenza» più stretta con le piante?

«Anche in questo caso i punti a favore sono moltissimi. La cosa più scandalosa è che, pur esistendo decine di studi scientifici e una grande quantità di dati, purtroppo non si parla di questi vantaggi. 

Una domanda che abbiamo fatto anche ai ragazzi di B.LIVE: lei che albero è?

«È una domanda piuttosto difficile, ci sono delle piante per le quali ho una forte simpatia, tra cui il tiglio, ma anche il ginko. A questo proposito, un piccolo aneddoto: vicino a casa, qui a Firenze, ci sono due alberi di ginko che considero come fossero due amici. Spesso mi ritrovo sotto le loro fronde a meditare; un’attività che mi dà una grande gioia. Tornando alla domanda, viste le mie origini siciliane, potrei dire che sono un agrume, un arancio in particolare. In Sicilia il giardino per eccellenza è l’agrumeto, mi ricorda molto la mia infanzia. Devo ammettere che la domanda che mi avete fatto, dall’apparenza semplice, è invece molto complessa e mette in gioco emozioni, ricordi e tanto altro; non è possibile rispondere senza una riflessione e un pensiero alle nostre radici».

Cambiamo argomento, parliamo di intelligenza. Qual è la sua visione in merito all’intelligenza delle piante?

«Vorrei partire dalla mia personale definizione di intelligenza: la capacità di risolvere i problemi. L’uomo, nel corso dei secoli, ha dato definizioni sempre più restrittive di intelligenza, relative solo alle opere umane. Vi chiedo: “Le macchine sono intelligenti, dato che ormai sanno riprodurre la maggior parte delle azioni umane?”, la risposta è no, perché l’intelligenza è una proprietà intrinseca degli organismi viventi. Le più diffuse definizioni di intelligenza sono concettualmente errate e convergono nella convinzione che l’uomo sia superiore agli altri esseri viventi. Se, invece, guardiamo i dati, notiamo che gli animali rappresentano solo lo 0,3% della biomassa totale. Il resto sono vegetali. Di conseguenza, possiamo ammettere che solo questa minuscola percentuale possieda un’intelligenza? Nessun organismo è migliore di un altro. Quando le persone si considerano migliori di altre nasce il razzismo, mentre quando l’uomo si considera superiore agli altri esseri viventi nasce lo sfruttamento. La vera domanda non dovrebbe essere chi è meglio, quanto piuttosto: “chi si è adattato meglio, chi è vincente da un punto di vista evolutivo?”. I dati scientifici ci vengono ancora in aiuto per rispondere alla domanda: l’età media di una specie è di 5 milioni di anni e tra queste, le piante mostrano una longevità molto superiore. Per quanto concerne l’uomo, si parla di soli 300.000 anni. Siamo una specie molto giovane, che si sta comportando in modo del tutto anti-evolutivo: come pensiamo di sopravvivere altri 4 milioni di anni se andiamo avanti in questa maniera? Il nostro cervello è capace di cose bellissime ma anche di disastri, come quelli sotto i nostri occhi. Potremmo paragonare l’uomo ad un bambino con in mano un martello: non sapendolo usare bene, lo utilizza per distruggere ciò che gli sta intorno. Abbiamo uno strumento potentissimo in mano, il nostro cervello, ma dobbiamo imparare ad usarlo davvero bene».

Stefano Mancuso con Emanuele Bignardi – ragazzo B.LIVE

E le piante? Qual è la loro intelligenza e come potremmo sfruttare i modelli organizzativi vegetali per applicarli a quelli umani?

«Tra gli animali e le piante c’è un’enorme diversità, ma hanno sempre convissuto in armonia. Gli animali hanno un corpo in cui il cervello rappresenta l’organo di comando, da cui dipendono. Gli organi sono singoli o al più doppi e se una di queste parti smette di funzionare, tutto l’organismo muore. Diversamente, le piante hanno peculiarità strutturali differenti, che derivano dal fatto che si sono evolute in assenza di movimento. Quindi, se il corpo animale è fatto per muoversi, quello delle piante è costruito per rispondere efficacemente all’ambiente circostante, senza la necessità di spostarsi. Le organizzazioni umane – così come anche gli oggetti che l’uomo costruisce – sono fatte a immagine e somiglianza del nostro corpo: una società, ad esempio, avrà un capo, il cervello, che prende delle decisioni velocemente, da cui dipendono tutta una serie di organi seguendo una gerarchia piuttosto rigida. Al contrario, l’organizzazione delle piante è più simile a una rete senza un vero e proprio centro di comando, prendendo decisioni in modo più condiviso e maggiormente democratico. Queste organizzazioni non gerarchiche non rappresentano un esempio di anarchia: le regole esistono, ma semplicemente sono differenti da quelle che noi solitamente conosciamo. Esistono anche delle strutture umane non gerarchiche, come ad esempio internet o Wikipedia, che funzionano molto bene. Quindi, perché non applicare questi principi anche a una redazione, piuttosto che a un’azienda?».

Lei è il capo di un laboratorio… Come ha organizzato questa struttura?

«Anche il luogo dove ci troviamo è costruito come una rete. Io sono il capo solo formalmente, ma i componenti del mio laboratorio hanno libertà maggiori rispetto ad altre strutture. Noi qui facciamo ricerca in modo aperto e libero di spaziare a trecentosessanta gradi e nonostante questa impostazione il laboratorio non è anarchico. La cosa importante è che i componenti della mia organizzazione possano portare delle competenze. Ognuno porta il proprio contributo; esistono regole, solo sono differenti da quelle comuni».

Potremmo paragonarLa alle radici di questo «albero» da laboratorio… Cosa ne pensa della fuga dei cervelli?

«Questo tema mi ha sempre fatto un po’ ridere, nel senso che già nel Medioevo gli scienziati si spostavano in altri Stati o regioni dove ci fosse un’eccellenza; fare scienza significa acquisire conoscenze e competenze, anche spostandosi. Il vero problema, in realtà, è il fatto che sempre meno persone vengono in Italia ad imparare: la nostra capacità di produrre competenze si sta impoverendo».

Abbiamo visto le influenze delle piante sulle altre specie viventi. Parliamo ora del rapporto tra esseri umani e mondo vegetale. Da studioso delle piante, Lei quale rappresentazione grafica darebbe?

«Le piante sono come una rete, un’alternanza di nodi e connessioni, qualcosa di completamente differente rispetto alla struttura degli animali, ma costituite da colonie di moduli, del tutto simili alle strutture adottate dagli insetti sociali, esempio virtuoso di organizzazione comunitaria».

In questa visione «a rete», dove si colloca il genere umano?

«In realtà, l’uomo non compare. Le piante sono qualcosa di completamente differente da noi, ma allo stesso tempo noi siamo completamente dipendenti dal mondo vegetale, eppure siamo del tutto ininfluenti rispetto alla loro evoluzione. Negli ultimi secoli l’uomo si è comportato come quei virus che distruggono il loro ospite, adottando un comportamento del tutto anti-evolutivo».

Qual è il suo rapporto con le piante? Come è arrivato ad essere uno dei più importanti studiosi del mondo vegetale?

«Sono arrivato alle piante con un percorso non lineare. Ho iniziato studiando Agraria anche se, come tutti i bambini e i ragazzi, preferivo gli animali. Credo che le piante siano una sorta di “amore adulto”. Ora ho un rapporto piuttosto stretto con gli alberi, spesso li tocco, li accarezzo, mi piace stare in loro compagnia. Penso che dovremmo imparare il rispetto della Natura dalla cultura orientale; abbandoniamo l’idea che l’uomo sia padrone della Terra, è migliore la convinzione che ne sia il custode».

Ultima domanda: in relazione al rapporto tra uomo e mondo vegetale, cosa ne pensa degli OGM?

«Personalmente sono contrario, per almeno due ordini di motivazioni. Non c’è alcuna differenza tra mangiare un mais transgenico e uno “normale”. Il problema è molto più ampio: gli OGM sono funzionali a un tipo di agricoltura industriale che considero sbagliata perché non conserva né protegge la biodiversità e la fertilità dei suoli. Quindi, seppur in certi casi gli OGM possano essere utili al genere umano, sono un’arma troppo potente nelle mani di chi vuole trasformare l’agricoltura in un processo industriale. Il secondo punto è più legato alla mia etica ed è personale: credo che l’uomo non abbia il diritto di interferire nella vita di altri organismi, come le piante, hanno la loro esistenza e vanno rispettati».

Mentre il treno corre a 300 chilometri all’ora sulla strada del ritorno, ripenso alle parole di Stefano Mancuso e alla sua visione. Mi chiedo perché persone illuminate come lui, forse «utopisti o visionari» non vengano ascoltate. Eppure, sono convinto che nelle sue idee ci sia una grande verità. L’uomo deve essere in grado di tornare in armonia con la Natura. Ne va della sua, della nostra sopravvivenza come specie. Se non instauriamo una mutua convivenza con gli altri esseri viventi, neanche il nostro meraviglioso cervello potrà salvarci dalla catastrofe dell’estinzione.