Io che lavoro dentro la bellezza

Di Giulia Russo

Quando da piccola mi veniva chiesto cosa avrei voluto fare da grande, finivo sempre per esclamare: «la pittrice!» con un sorriso e una convinzione che avrebbero intenerito chiunque.

Alla fine, per quanto avere le mani impiastricciate di colori mi piacesse da impazzire, negli anni ho scoperto di avere un’indole molto più scientifica che artistica ed è così che il mondo del restauro è entrato nella mia vita. Solitamente il primo commento che mi viene fatto, parlando del mio lavoro, è: «devi avere tanta pazienza». Indubbiamente. La cosa che mi appassiona di più però, è la soddisfazione finale, quella per cui ci si rende conto di aver contribuito alla rinascita di una bellezza che era stata persa o trascurata nel tempo. 

È il risveglio di una sibilla trecentesca nascosta sotto strati di crosta nera, è la rivelazione delle sfumature del manto di un animale pompeiano celate da una cera invecchiata e ingrigita, è l’identità ritrovata di un affresco medievale conservato solo in stato frammentario. Ora capite? È un attimo e l’animo si arricchisce con ciò che prima passava inosservato. Così, quando salgo sul ponteggio e mi trovo a pochi centimetri dal dipinto, tutte le scomodità cessano di esistere: le scarpe antinfortunistiche, le mani gelate o il caldo asfissiante sotto la maschera solventi, il mal di schiena inguaribile e le posizioni improbabili in cui spesso mi ritrovo. Esiste solo il dipinto e il desiderio urgente di prendermene cura. Vivo ogni progetto come una storia d’amore perché ogni opera e ogni cantiere, al termine del restauro, si prendono sempre una parte del mio cuore. Forse, per deformazione professionale, mi verrebbe semplicemente da dirvi di alzare lo sguardo verso le architetture che ci circondano e di innamorarvi anche voi. Sono convinta che se iniziassimo un po’ tutti a camminare con il naso all’insù vedremmo meno musi lunghi in giro per le strade. La bellezza ce l’abbiamo davanti agli occhi, bisogna solo imparare a vederla.