Di Fiamma Colette Invernizzi
Stoccolma 2010, Amburgo 2011, Vitoria-Gasteiz 2012, Nantes 2013, Copenaghen 2014, Bristol 2015, Lubiana 2016, Essen 2017, Nimega 2018, Oslo 2019, Lisbona 2020. Undici vincitrici, undici successi. E le città italiane? Mai, nemmeno una volta, sono riuscite ad inserirsi nei quartetti finalisti proposti alla commissione dell’European Green Capital Award, il premio per le migliori Città-Verdi. Anzi. Polveri sottili e ossidi di azoto la fanno da padrone. Ma se, alla base della nobile arte dell’imparare da chi è migliore di noi si trova la meno nobile arte del copiare, allora dovremmo metterci di buzzo buono per iniziare a far quello. Subito. Se dovessimo considerare per prima la capitale danese, saremmo in ritardo di mezzo secolo.

Copenaghen, infatti, già nel 1962, pianificava l’allora più lungo sistema pedonale del mondo: 3,2 chilometri. Oggi la città detiene un altro record, altrettanto rivoluzionario: il numero di utenti che si sposta su due ruote supera quello di vetture. Oltre i 260.000 i primi – che godono di ben 400 chilometri di piste ciclabili su cui muoversi – contro i 250.000 dei secondi. In Italia, i trasporti stradali sono ancora responsabili del 40% delle emissioni totali di NOx – gli ossidi di azoto inquinanti che, ogni anno, silenziosi e invisibili, causano più di 400.000 morti premature nell’intera Unione Europea. Non perdiamoci d’animo, cambiare si può. La municipalità di Oslo, da sempre all’avanguardia, ha dichiarato che l’intera città dimezzerà le sue emissioni di CO2 entro il 2020 e diventerà ad emissione zero entro il 2050.
Utopia? No, in una nazione in cui il 30% di auto vendute sono elettriche e gli autobus urbani sono alimentati a biogas, prodotto dai rifiuti organici e dalle fognature della stessa capitale. Non c’è da stupirsi, potremmo pensare. Sono città del Nord Europa, dove la cultura del senso civico riveste superfici e animi umani – più della neve e del freddo – e dove giovani attiviste (come la grande-piccola svedese Greta Thunberg, 16 anni) fanno la voce grossa per salvare il proprio futuro dalla desertificazione della sensibilità ambientale. Non è così, però. La vera sorpresa è Lisbona, già premiata Capitale-Verde per il 2020, che di città del Nord ha proprio poco. Infatti, seppur schiaffeggiata da un’impietosa crisi economica, la capitale portoghese ha raggiunto risultati impensabili, facendo della sostenibilità un nuovo, infallibile, punto di forza. In un lasso di tempo compreso tra i primissimi anni del nuovo millennio e il 2015, la città ha già dimezzato le emissioni di CO2 riducendo il consumo totale di energia del 23% e di acqua del 17%. Numeri da capogiro. E ancora: nel solo 2017 ha incrementato l’uso del bike-sharing – con tanto di biciclette con pedalata assistita per incentivarne la diffusione – e ha completato una delle reti più grandi al mondo di punti di ricarica per veicoli elettrici.

Quando è la città a mettersi a servizio dell’essere umano e non l’essere umano a mettersi al servizio della città, si può davvero parlare di grande rivoluzione. La quasi totalità della popolazione di Lisbona (stiamo parlando di oltre il 93%), infatti, risiede a meno di 300 metri da una fermata di trasporto pubblico mentre «solo» il 76% degli abitanti abita a meno di 300 metri di distanza da un’area verde. Cambiare si può. Non è solo una questione di numeri – che siano di alberi piantati nel cemento, di percentuali di particelle emesse o di lampadine a basso consumo – ma una questione di educazione. Educazione al futuro che si può cambiare, alla voce che si può innalzare a difesa delle giuste cause comuni, alla passione per un’utopia possibile, alla condivisione di risultati e speranze, al gesto accorto nei confronti di questo ammasso di roccia che ci tiene tutti con i piedi per terra, a galleggiare in un mare, incolore e insapore, di vuoto universale.