I love you, ti voglio bene: parole intraducibili

Di Irene Nembrini

Ti voglio bene: tre parole, un significato intraducibile. È solo una delle tante, tantissime espressioni che non hanno una traduzione esatta in altre lingue e una delle mille barriere della linguistica. Una lingua non è semplicemente un insieme di vocaboli e grammatica, bensì un’entità viva e mutevole, calco della cultura e della società che la utilizza: si adatta e si plasma sulle esigenze di un popolo e sulle sue tradizioni, seguendone i comportamenti e lo sviluppo. È proprio per questo che a volte non riusciamo a trovare la parola perfetta quando sfogliamo un vocabolario o leggiamo un testo: semplicemente non esiste! 

Ci sono innumerevoli esempi di questo fenomeno, dall’ormai celebre «schadenfreude», al nostro verbo avere che non ha una corrispondenza esatta in lingue come l’arabo o l’ungherese, passando per gli oltre mille modi per dire «renna» della lingua sami. Non si tratta di cavilli sintattici, ma di vere e proprie necessità che vengono riflesse nella vita di tutti i giorni: mentre un italiano potrebbe sorvolare per quanto riguarda gli oltre 200 modi esistenti per riferirsi alla pasta, per un eschimese distinguere tra «neve compatta, ideale per trainare la slitta» e «neve morbida in cui si sprofonda» – o una qualsiasi delle oltre 60 parole che identificano la neve – è una questione di vita o di morte. La traduzione risulta quindi un lavoro estremamente complicato e spesso frustrante, che richiede molto tempo ed attenzione. 

Tra gli altri ostacoli linguistici che spesso vengono sottovalutati, c’è anche un fenomeno detto «intraducibilità culturale», incubo di molti esperti: si tratta dell’impossibilità di rendere un concetto in una lingua straniera poiché inesistente in quella cultura. Proverbi, giochi di parole, tradizioni peculiari sono un vero e proprio incubo per gli addetti ai lavori, che si ritrovano a manipolare e a modificare un testo per renderlo il più comprensibile possibile. 

Per capire meglio questo discorso, basta pensare a uno dei libri più venduti e tradotti del ventunesimo secolo, ossia la saga di Harry Potter. Ambientato in un luogo inventato che riprende i college inglesi, i sette libri sono intrisi di termini inventati, latinismi e molto di più. Il mago Albus Silente, per esempio, appariva nella versione originale come Albus Dumbledore: il nome Albus, che richiama al «bianco» latino, è stato mantenuto, mentre il cognome Silente riprende l’originale «dumb» cioè «muto». Il lavoro svolto dai traduttori italiani è di gran lunga più equilibrato di quello dei colleghi norvegesi – che hanno preferito tradurre tutti i nomi anche a costo di perdere il significato originale, – o di quelli cinesi – costretti a mantenere i vocaboli originali corredati da note a piè di pagina, a causa della troppa differenza culturale tra la Cina e Hogwarts. 

Per quanto ci si possa sforzare, qualcosa diventerà inevitabilmente «lost in translation», perso nella traduzione: sta a noi recuperare i significati più nascosti e trasformare un ambiguo «I love you» in un «ti voglio bene», o in qualcosa di più.