Di Oriana Gullone
Oriana a New York vive in un appartamento di fine 800. Ha una cantina piena di tutto un po’: ricordi e cimeli che ciclicamente l’East River allaga. La casa di Milano è accogliente più del previsto, dopo un caffè e un bicchiere d’acqua ci spostiamo nello studio. Sul tavolo l’elmetto del Vietnam, una Lettera22, il libretto de L’Europeo, i primi appunti di Lettera a un bambino mai nato, i passaporti. I sopravvissuti dell’East River.
Guardo l’elmetto.
In quale guerra andresti adesso? Dove c’è più bisogno di verità?
«Sul web. Ben inteso, non ho mai usato un computer, ma ho fatto fare qualche ricerca su Internet da altri. Ho piena percezione delle potenzialità che ha, ma non so quanto avrei saputo prevederne i danni, un potenziale così grande non può non nascondere problemi grandi. Ho visto le recensioni che fanno dei miei libri, le cose che vengono pubblicate on line, e non capisco come sia possibile non fermarli, gestire le autorizzazioni. E andrei in Nord Africa a capire cosa si sta muovendo, chi è questa gente che arriva. Non riuscirei forse più a ripetere il Vietnam; già dalla guerra del Golfo, ai giornalisti non permettono più di andare al fronte. Forse ha ragione mio nipote Edoardo a dire che ho una stella che mi protegge, che ho rischiato la pelle milioni di volte, ma è un giornalismo che non si fa più. Che non ci lasciano fare più. Spendo tempo per quello di cui mi frega realmente qualcosa. Della Bosnia, o della mafia per esempio, non mi sono mai occupata».
C’è un altro Panagulis in giro?
«Parecchi. Sang Suu Kyi in Birmania, Malala in Pakistan. Mi è piaciuto molto Lech Walesa in Polonia (presidente polacco dal 1990 al 1995, vince le prime elezioni libere con Solidarnosc), mi ricorda tanto Alekos. Ma con gli anni è venuto fuori più l’uomo che il politico, più sempliciotto, che ha fatto discutere. Probabilmente ad Alekos sarebbe successa la stessa cosa, se non fosse morto sarebbe ancora al governo. Ma era un predestinato, un eroe greco classico, un poeta che non poteva fare una fine diversa. In questo è unico».
Chi intervisteresti adesso?
«Trump, sicuramente mi divertirei. Rimango col rimpianto di chi non sono mai riuscita a intervistare: Papa Wojtyla non si è mai fatto intervistare in due anni di tira e molla; Fidel Castro mi ha fatto andare a La Havana due volte senza ricevermi; con Andropov, leader russo, avevamo fissato il colloquio, ho chiesto un rimando di quattro mesi per studiare, e lui nel frattempo è morto».
Tra i tuoi colleghi chi ammiri di più?
«Nessuno. Sono da sempre poco rispettata e molto temuta da tutti. Ho qualche amico, tra i colleghi, Vittorio Feltri, per esempio, con il quale siamo sempre in contatto. Ma ammirare, nessuno».
Quali caratteristiche deve avere, secondo te, un buon articolo?
«Soggettività. Io ho il dovere di commentare quello che vedo, per come lo vedo io. Il giornalista è testimone, non spettatore passivo. Ha spirito critico. Poi mio nipote dice che sono un po’ strega, che faccio radiografie alla gente guardandola negli occhi. Magari ha ragione, tendo a farmi rapidamente un’idea sulle cose. Mi stufo in fretta, delle persone. Ma un buon giornalista deve essere capace anche di ritrattare, di cambiare idea, a me è capitato su americani e vietcong, sui palestinesi».
Cosa ti ha spinto a scrivere, di mestiere?
«Predestinazione. Ne sono convinta. Zio Bruno, il fratello di papà, giornalista anche lui, racconta sempre del mio tema sul semino che ha vinto il Premio della Befana Fascista alle elementari, una piccola somma di denaro mai ritirata, con mio sommo dispiacere, ma in una famiglia di partigiani sarebbe stato un oltraggio. E ricordo il momento in cui mi è stato permesso, perché malata, di leggere le edizioni Salani col dorso rosso che splendevano in vetrina a casa. Poi, finito il liceo, non c’erano soldi e per pagarmi la facoltà di Medicina e mi sono presentata alla redazione che doveva essere de La Nazione, ma è stata del Mattino dell’Italia Centrale. Giravo in bicicletta per commissariati e ospedali per scrivere di cronaca. Poi di un comizio di comunisti il direttore, democristiano, mi disse che potevo anche non andarci e cassarli tutti. L’ho mandato al diavolo. Ho scritto di un gruppo di operai comunisti, a Fiesole, che avevano celebrato il funerale di un compagno cui il parroco aveva negato il rito. L’ho mandato all’Europeo e me l’hanno pubblicato. Da lì mi sono occupata di Costume e Spettacolo, anche se in pochi mi stavano simpatici di quel mondo. Dal Vietnam in poi ho cambiato tono. Completamente. E ho cercato di eliminare tutto il “prima”. Però l’ultima telefonata che ho ricevuto è stata da Sofia Loren. Ci conosciamo da una vita e non l’ho mai intervistata. Buffo, no?».
Perché i tuoi genitori ti hanno chiamata Oriana?
«Non lo so, in realtà. Sapevo in onore di Orio Vergani (primo fotoreporter italiano), ma probabilmente è una balla. Mia sorella Neera ha il nome di una musa, l’altra mia sorella è Paola. Tendenzialmente non si è seguita la genealogia, nella migliore tradizione anarchica. In compenso mi sono divertita un sacco quando Edoardo, mio nipote, mi ha chiesto consiglio per il nome del terzogenito».
Una canzone o un libro alla quale sei legata?
«La Divina Commedia, e mi piace molto la fantascienza. E Greensleeves. Non so perché mi piace, l’ho usata tanto nella lettura registrata di Lettera a un bambino mai nato. Ho sempre amato andare a vedere i musical, e i concerti dal vivo: Ella Fitzgerald, Louis Amstrong… Poi hanno vietato di fumare nei luoghi pubblici e m’è passata la voglia».
Che importanza dai alla famiglia?
«Tantissima. Se hai letto Un cappello pieno di ciliegie hai già la risposta. Il mio più grande rammarico è non aver avuto figli. Ne ho persi tre. Ho sempre appoggiato fortemente il progetto di famiglia di Edoardo, che di figlioli ne ha avuti quattro. Fin da bambina mi affascinavano le storie di famiglia. Mi piaceva scoprirle e mi piace tuttora raccontarle. Ma siamo rimasti pochi Fallaci, e le grandi storie di famiglia si fermano alla Liberazione, sostanzialmente. Anche “filmini” o foto di famiglia degli ultimi 30 anni non ne abbiamo. E chi ha girato lo sceneggiato su di me (Fandango e Rai, con i cui sceneggiatori Edoardo ha lavorato a lungo alla stesura) ha fatto una robetta sdolcinata molto lontana dalla realtà. Magari gli americani fanno meglio…».
Come vivi la paura?
«Ne ho sempre tanta. Delle situazioni, dei bombardamenti. Bandini, console italiano negli USA, mi dava della paranoica, ma ero solo consapevole dei rischi. In una stanza interna non salti in aria se sparano per strada. Non ho invece paura di scrivere quello che penso, ho paura di essere fraintesa piuttosto».
Cosa diresti ai giovani?
«Studiate. Trovo assurdo che negli USA ora esistano corsi di “Oriana’s Journalism”, ma, per le mie interviste, lo studio e la precisione nel registrare e appuntarmi tutto, sono stati fondamentali. E, da fiorentina e italiana, agire: muovetevi in prima persona per quello che vi interessa».
B.LIVE ha 3 parole che sono essere, credere, vivere. Le tue quali sono?
«Scrivere, coraggio, libertà, da sempre».
Illustrazione di Max Ramezzana