La vita l’ho sempre vissuta appieno, ma a tratti questa malattia ha reso tutto più nebuloso, pieno di cose nascoste, di paletti, impedimenti, schemi rigorosi, sguardi nostalgici, e la vita vissuta così non è più la stessa. La Cristina che tutti conoscevano non c’era più, fortunatamente non ho mai perso bontà, umiltà, ironia, ma tutto il resto era svanito.
L’esordio dei disturbi alimentari è avvenuto da adolescente, ma sinceramente non ne ho mai parlato, né gli ho dato peso, né l’ho mai curato. Ero un po’ grassottella e qualcuno mi derideva; anche se ci rimanevo male, continuavo a essere una bambina ironica, facevo parte degli scout e mi divertivo parecchio, però… però certe cose ti cambiano, certe cose ti toccano, e allora ecco che ti senti diverso. Questo esordio è abbastanza comune a molti adolescenti, alcuni lasciano correre, altri si incupiscono e iniziano a pensare come fare per essere accettati, e allora mangiare non diventa più una cosa semplice. Ti senti osservato. Io ho iniziato così.
Mangiare è bisogno, ma anche piacere e non possiamo pensare di viverlo senza emozioni. Non siamo macchine e sebbene il cibo costituisca il nostro carburante, la nostra energia, non rappresenta solo questo. Molte persone malate di anoressia temono questo piacere, se ne privano per fattori interiori che magari neppure si comprendono. Avere il controllo su queste emozioni dà forza all’anoressico e il controllo a sua volta è un modo per farsi scudo dalle emozioni negative.
Spesso veniamo additati perché «questa malattia ce la siamo cercata noi» e che «basta volerlo per guarire»: io mi sento di rispondere a queste affermazioni che nessuno decide di stare male e di diventare così. Il contesto e altri fattori scatenanti la fanno nascere in noi; la cosa vera è che è una malattia da cui si può guarire, ma è anche una malattia infame perché si autoalimenta: il malato vuole guarire, ma a tratti la patologia che pian piano lo sta annientando, si rinforza.
Vivo la mia adolescenza come tante altre ragazzine, fortunatamente la scuola va molto bene, e così le attività sociali. In questo periodo la malattia non ha avuto la meglio su di me, non mi ha messo in pericolo fisico, visto che il peso non è mai sceso né aumentato così drasticamente da impedirmi di fare quello che volevo, ma come ho detto prima… ti senti diverso, inadeguato.
Gli anni passano e la malattia torna a far capolino all’ultimo anno di liceo e all’università. Forse la tensione degli esami e la vita che inizia a porti delle domande. Ingrasso nuovamente, il cibo diventa uno sfogo, un modo insulso e meschino per affrontare le emozioni, e allora non ti fermi quando sei sazio, anzi il senso di sazietà non lo conosci. La convivialità che quasi sempre leghiamo al momento del pranzo viene negata e tutto diventa un momento intimo, nascosto, spesso carico di vergogna e senso di colpa. In questo caso la malattia sì che colpisce: le relazioni sociali diventano difficili, anche se mai svanite, e gli studi faticano a dare buoni risultati. Ecco che allora decido di cambiare e con una forza d’animo, ma anche fisica che quasi non conoscevo prima, inizio a mangiare sano, a fare molto sport e a studiare giorno e notte. Tutto sembra funzionare, ma sono come una macchina: le mie giornate hanno una scaletta ben precisa, l’agenda sempre piena.
E gli anni vanno avanti, ho iniziato a lavorare, ho viaggiato all’estero senza gravi problemi, con un peso normale, forse un po’ bassino, con delle fisse sul cibo sano e sullo sport, ma nulla che sembrasse patologico. Di ritorno da un viaggio all’estero di due anni iniziano i veri problemi. Dimagrisco, mi muovo in bici ogni giorno, perché mi piace, ma anche perché devo, devo smaltire, devo sfogare, devo sudare, mangio quasi sempre le stesse cose, sane, leggere. Gli amici e i miei genitori cominciano a capire che c’è qualcosa che non va, e anch’io capisco che quegli schemi rigorosi mi allontanano dagli obiettivi più importanti, che sono diventati una dipendenza di cui non riesco a fare a meno. Un giorno perdo la testa e decido di non seguire gli schemi: mi manca la terra sotto i piedi, anche il cervello è denutrito, non sto bene mentalmente né fisicamente, ho attacchi di panico. Ecco il primo ricovero al San Raffaele. Entro e non vorrei rimanere, mi sento in trappola, poi cercano di calmarmi e rimango. Sono sola in camera e penso, penso tanto e mi agito, decido che devo salvare i miei obiettivi, la mia testa. E allora dico alle infermiere che io non voglio fare le perline, attività contro la quale non ho nulla e che anzi trovo utile per distrarre e rilassare i pazienti, ma io voglio ritrovare la testa e chiedo di studiare. Mi faccio portare ogni giorno il quotidiano e lo leggo con attenzione, ma anche con fatica a causa dei pensieri intrusivi sul cibo e sull’aspetto fisico; poi inizio a tradurre dei piccoli libretti di inglese, mi alleno ogni giorno e infine, decido di riprendere in mano la mia professione. Chiedo ai medici di poter studiare per l’esame di stato per architetti. Sembra una follia, uno stress sopra un altro stress, eppure per me è la salvezza.
Inizio a studiare, con fatica ma con decisione; sembra ridicolo, disegno su fogli enormi sulla scrivania della mia stanza, rotoli ovunque.
La convalescenza continua e io non prendo peso, ma mi abituo a mangiare in modo corretto e variato, e soprattutto a stare tranquilla. Per dare l’esame lascio l’ospedale per due giorni: sono diretta a Firenze, sono tesa ma alla fine ci riesco, divento architetto. Questo mi riempie di gioia e di speranze.
Esco dal ricovero e la vita va avanti tra alti e bassi, riprendo il lavoro e le amicizie, ma l’anno scorso mi sono ammalata di nuovo e questa volta la malattia mi prende al 100%. Inizio a dimagrire riducendo pian piano il cibo, tolgo i carboidrati, mangio verdura, pesce e formaggi magri, le quantità si riducono sempre di più.
E poi lo sport che diventa il mio senso di libertà, adrenalina, gioia: vado in bicicletta in collina e poi in piscina, 100 vasche al giorno, sentendo ben poca fatica e poca fame. Perché quando l’anoressia ti prende in questo modo ti fa sentire forte, anche se non lo sei. Vado anche in vacanza con i miei genitori che l’estate scorsa non se la sono sentiti di farmi partire da sola. In montagna cammino, al mare corro e nuoto e non perdo il sorriso né la vivacità. Poi vedo che alla sera inizio a essere stanca e al mattino non corro più. Scendo a 32 chili e a settembre mi ricoverano a Niguarda. Sono preoccupata, ma allo stesso tempo mi sento al sicuro. Mi mettono il sondino per l’alimentazione e inizio anche a mangiare qualcosina. Gli specialisti sono bravissimi, si approcciano con decisione ma anche comprensione, infatti cercano da subito di seguire i miei tempi nel limite del possibile. Lo scoglio da affrontare è lo stare fermi (per me, impensabile), poi mi sforzo e inizio ad inventarmi dei passatempi a cui non ero per nulla abituata. Faccio l’uncinetto, quasi ridicolo al primo pensiero, purtroppo, anche se ho una gran voglia di leggere, non ci riesco: una riga e pensieri, un’altra riga e di nuovo pensieri. Inizio a socializzare con gli altri pazienti, giochiamo a carte. Piano, piano riscopro dei lati nascosti di me.
Una parte della Cristina-attiva rimane sempre e infatti spesso mi trovano in corridoio a camminare avanti e indietro. Forza, determinazione e un po’ di ribellione non mi hanno mai abbandonato, ma ho imparato a modulare le emozioni e le reazioni. Ho pian piano ripreso la testa e la mia vita. Dopo il ricovero inizio il day hospital giornaliero. I mesi passano e io acquisto peso. Le cose vanno meglio, anche se l’aspetto fisico che cambia mi spaventa molto. Mi viene affidata una psicologa e con lei inizio a buttare fuori le emozioni, a capire di più che cosa sta dietro alle mie azioni, ad accettare le mie – le chiamo così – dipendenze. Imparo pian piano a essere più amorevole con me stessa.
Le cose vanno meglio, inizio anche a vivere da sola a Milano, curo la casa, il balcone con fiori e piante che per me è una gioia. Riprendo le amicizie, anche se ancora lentamente. Ora faccio piscina, bicicletta, passeggiate, ho un ragazzo, mangio sano, m’interesso di cinema e arte, cerco un lavoro e faccio parte dei B.Livers che hanno contribuito alla mia salvezza.
Sono sincera, lo specchio mi fa ancora paura, ma riesco anche a sorridere, ad amarmi un po’ di più. I miei genitori mi sono sempre stati vicini e rimangono tuttora il mio punto di riferimento.
Ero molto in dubbio se parlare di me. Poi ho zittito la voce timida e ho dato spazio a quella che vuole far sapere, aiutare, urlare, perché di storie così ce ne sono tante e bisogna cercare di uscirne, di lottare e di riprendersi in mano la propria vita.
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