La storia di Sarah Kamsu

Di Sarah Kamsu

Bisbiglio al cielo tutto ciò che c’è di bello nella natura. Non posso parlare forte, esporre il mio pensiero ad alta voce.  Così decido di iniziare a scrivere, a scrivere qualcosa con la speranza che possa essere letta un giorno da qualcuno… mi immagino la libertà oltre quel muro. Quel muro che di giorno in giorno mi divide dalle persone. Qui in ospedale tutto è diverso, non sono mai stata così attaccata alla zattera chiamata vita. Dopo aver attraversato le onde agitate della malattia. Tentavo di vedere come rompere col passato, di uscire dalla prigione fatta con le mie stesse mani. Ripetevo al vento il mio desiderio di venir fuori dai miei pensieri ormai avvolti da una densa nube. Il dolore diventava rabbia ogni giorno. Non riuscivo a esprimerlo e rimaneva in quiescenza dentro di me. Intanto mi penetrava e mi logorava.  Avevo una marea dentro che montava, avanzava lenta e mi spaventava, così era impossibile controllarla. Provavo con tutte le mie forze a resisterle, ma stava per travolgermi. Avrei tanto voluto scavare un buco, arrampicarmi sugli alberi, sui tetti delle case. Guardare di nuovo negli occhi la libertà. Da quando sono rinchiusa qui dentro con la mente, con l’immaginazione me ne vado lontano. La speranza attraversa le sbarre ed è l’unica luce che mi conforta in queste giornate.  Mi immagino come dipingere un mondo nuovo. Chiudo gli occhi e mi sento tutt’uno con l’universo. Chiudo gli occhi e mi accorgo che in me si racchiude il mio vero potenziale. Chiudo gli occhi e mi sento uno spirito libero. Mi sembra quasi di volare e di sfiorare appena la terra. Sento di percorrere rotte inaspettate. Mi immagino da bambina e di come quella bambina sarebbe fiera della persona che sono diventata. Fino ai 17 anni la mia vita appariva normale: un’infanzia felice, una famiglia presente, due genitori immigrati intraprendenti, entrambi laureati in medicina e due fratelli bellissimi. Ero un’ adolescente come tante, frequentavo il liceo e avevo sempre una gran paura di espormi o di buttarmi. L’annuncio di un ospite inaspettato, una malattia cronica e rara, è stato l’inizio di un nuovo capitolo della mia vita. La vita in ospedale assume un altro ritmo: ti disconnetti dal tempo fuori, ti connetti al puro presente, le giornate sembrano non passare mai, tra un prelievo, e una flebo e l’altra. È successo tutto molto in fretta e ho impiegato molto tempo per comprendere e accettare in pieno che cosa mi stesse succedendo. L’ospedale è il luogo che mi ha fermato dalla routine quotidiana. Che mi ha fatto pensare a cosa mi potesse rendere davvero viva e realizzata. Credo che in quei periodi, se non fosse stato per la letteratura e l’arte, sarei stata persa, letteralmente persa. Ma non parlo della letteratura dei grandi poeti e dei grandi scrittori: passavo ore e notti intere a leggere blog o lettere di ex carcerati, malati terminali, persone che hanno saputo lasciare una goccia di speranza anche davanti al dolore più profondo. Eroi anonimi. Grazie a loro ho capito il senso della vita e come ognuno di noi possa trovare il proprio. Ho capito che esistere significa «uscire da se stessi» per scoprire il mondo, significa uscire dalla capsula che ci rinchiude e che in fondo non ci permette di vivere al massimo. Una capsula che, una volta rotta, ci apre a infinite possibilità e che nello schiudersi, libera il nostro vero potenziale. La malattia può fare questo. Il dolore può fare questo. Tutti soffriamo. Ma nella nostra mente come ci sono problemi, ci sono altrettante soluzioni. Ognuno di noi ha la sorprendente capacità di adeguarsi e di imparare a gestire le situazioni che il destino gli riserva. Ho amato il mio caos, ne ho tratto forza e nuova vitalità. Ho imparato ad andare a braccetto con le mie paure e le mie sofferenze. Ho il paradiso nella testa, il cuore che pulsa. Ora guardo il presente con entusiasmo, con gratitudine e voglia di realizzazione. E guardo al passato e mi perdo nei ricordi sfumati, nel bello della risalita, nel bello del sentirsi vivi. Nelle sabbie mobili ci sono finita. Ricordo ancora il giorno in cui mi sono seduta e mi sono detta: «è inutile lottare, lo sai che dovrai portartela dietro tutta la vita». Non puoi lottare con il buio. Non puoi gettarlo fuori di te. Se vuoi fare qualcosa contro l’oscurità, devi fare qualcosa con la luce. Non c’è giorno in cui io non mi lasci trasportare e bagnare dal flusso della vita, non attivo più a tutti i costi i tergicristalli ed è forse questa la chiave della mia serenità di oggi. Mi lascio semplicemente accompagnare  verso rotte inaspettate a cui, sono certa, non sarei arrivata se avessi scelto io la mia strada. Tutti i miei desideri, le mie passioni sono diventati un’unica fiamma, tutto converge verso lo stesso punto. Essere una persona in moto, una sognatrice, una persona che apprezza ogni passo, più che una persona che vuole andare lontano. Mantengo la mente aperta, il cuore libero. Penso al presente: a me che studio scienze politiche e relazioni internazionali, a me che ballo, a me che collaboro con il Bullone. Ho conosciuto B.LIVE a un evento a settembre qui a Milano. I B.Livers, a me ancora sconosciuti, mandarono un  video di forte impatto, mi sono rivista nei loro discorsi e dopo un pò di mesi contattai Martina per saperne di più. Mi invitò in Redazione e mi accolse subito a braccia aperte e da lì nacque il tutto. Ho iniziato a scrivere qualche articolo e a fare qualche attività tra le mille proposte. B.LIVE ha messo le ali ad alcuni dei miei sogni nel cassetto, ma soprattutto mi ha dato ancora più sicurezza. In questo breve viaggio di tre anni ho capito la fragilità della vita, la sacralità di ogni momento, l’unicità di ogni storia e guardo il mondo con occhi diversi, di chi osserva e non giudica, di chi osserva per capire e arricchirsi. Non sono guarita. Sono solo un’adolescente che ogni giorno si sveglia con la consapevolezza di dover correre più veloce della malattia. Un’adolescente che ha scoperto il senso della propria vita. Una volta toccato il fondo, c’è una sola direzione: salire. Ormai a questo punto credo di essere condannata a una sola cosa: la vetta! Grazie alla mia famiglia, alle mie relazioni, a me stessa, davanti allo specchio mi confesso, finalmente mi riconosco e tiro un respiro di sollievo: è l’inizio di una vita nuova e di speranza. Ho deciso di ripartire, di  andare oltre lo steccato e prendere in mano il dono più prezioso che ho: la vita.

Sostieni la Fondazione, il tuo contributo ci permette di andare lontano sviluppando la ricostruzione, l’aggregazione e l’orgoglio comune insieme a un gruppo di ragazzi che hanno affrontato o stanno affrontando il percorso della malattia.