100 anni da quella guerra di trincea

Di Riccardo Ciapponi

All’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese del 1918, la Prima Guerra Mondiale finì. Nel corso di quattro anni, troppe persone morirono, uccise dalla follia della «guerra che metterà fine alla guerra», come la definì Wells nel 1914: una speranza purtroppo vana.

Alla fine del conflitto crollarono imperi e si formarono nuovi Stati, venne fondata la Società delle Nazioni, cercando di evitare un’altra guerra, ma così non fu. Vennero eretti monumenti agli ignoti militi, poeti e artisti raccontarono come poterono l’orrore che avevano vissuto, ma non si riuscì a cancellare il trauma che la generazione perduta subì.

Non è semplice comprendere cosa significhi la guerra di trincea, obbligati in un fossato a non poter guardare l’orizzonte perché infestato da proiettili, assordati dall’incessante artiglieria e sempre attenti che non giungessero i letali gas che, invisibili, uccidono, mentre l’influenza e il tifo infettavano indisturbati, mentre a qualche centinaio di fangosi metri altri soldati soffrivano le stesse pene, legati nel conflitto e separati dagli ordini. Per cercare di farci capire non solo i fatti, ma le emozioni e le sensazioni di quei ragazzi che non conosceremo mai, furono scritte moltissime lettere che sono arrivate fino a noi.

Di ufficiali e generali è infatti facile capire il pensiero, basta la frase del generale Cadorna: «Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia all’attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice». E le terribili storie di come gli ufficiali riversassero il peso della sconfitta sui soldati, condannandoli per vigliaccheria e fucilandoli.

Silvio D’Amico racconta che quando vennero scelti dieci condannati a morte, al patibolo uno di questi esclamò: “Signor colonnello! Io sono della classe del ‘75.Io sono padre di famiglia. Io il giorno [dell’insurrezione] non c’ero. In nome di Dio!”, ma la risposta fu una sola: «Figliuolo, io non posso cercare tutti quelli che c’erano e che non c’erano. La nostra giustizia fa quello che può. Se tu sei innocente, Dio ne terrà conto. Confida in Dio».  Con le parole del Tenente Salsa si capisce la terribile distanza tra coloro che decidevano e coloro che subivano: «Ma i comandi sembravano impazziti. Avanti! Non si può! Che importa? Avanti lo stesso. Ma ci sono i reticolati intatti! Che ragione! I reticolati si sfondano coi petti o coi denti o con le vanghette. Avanti! Era un’ubriacatura.

Coloro che confezionavano gli ordini li spedivano da lontano; e lo spettacolo della fanteria che avanzava, visto al binocolo, doveva essere esaltante.

Non erano con noi, i generali; il reticolato non l’avevano mai veduto se non negli angoli dei loro uffici territoriali, e non si capacitavano che potesse essere un ostacolo. Arrangiatevi, ma andate avanti, perdio! Che si fa, si scherza?». Tuttavia sono proprio le lettere dei soldati, spesso scritte in un italiano poco corretto, che svelano la crudeltà della guerra, talvolta nella quotidiana brutalità, come in una lettera dell’ottobre 1916 che recita: “Caro Amico, mi domandi del Pisaneschi. Lui si trova qui al mio fianco mentre che scrivo e si trova va presente al fatto mentre il Cecchi morì il giorno stesso di Vittorio, colpito da una pallottola austra. Non avendo altro che dire solo scrivo la lettera con dolore ma però ti prego farti coraggio speriamo sempre in bene”; talvolta nel disperato tentativo di proteggere i propri cari, come nella lettera di Pilade Bellucci che il 29 luglio 1915 scrive al fratello: 

Caro fratello Sisto ti scrivo questi due richi per farti sapere atte dove mi trovo io mi trovo in seconda linia e uno di questi giorni si va a dare il cambio alla prima linia pero speriamo sempre in bene adio apresto e mi firmo tuo fratello Pilade. Ti prego di non fare sapere niente ababo e amamma. ”. Aveva vent’anni e morì in combattimento tre giorni dopo.