La storia di Giada De Marchi

Di Giada De Marchi

Mi ricordo molto bene la prima volta che mi dissero: «Lo sai, sei diversa dagli altri». Questa frase è uno dei miei primi ricordi d’infanzia, a dirmela fu la mia maestra d’asilo, Egle. Ho sempre voluto essere più grande di tutti, mi piaceva giocare e divertirmi, ma dall’altra parte ero anche una bambina pensierosa, curiosa che si poneva tante domande a cui cercava sempre una risposta. Crescendo diventai sempre di più introversa, ricordo perfettamente il disagio che provavo andando al parco, oppure fuori con gli altri bambini.

A me piaceva casa mia, mi piaceva stare al computer o a guardare un sacco di film. Ed è qui, nella mia piccola mente, che iniziò a prendere forma una base di istruzione. All’inizio delle elementari già un po’ tutti avevano capito che io ero la saputella della classe. Un giorno la maestra Silvia ci diede un compito molto difficile: avevamo delle immagini a cui dovevamo scrivere a fianco delle didascalie di quello che rappresentavano. Tutti fecero il compito bene, io però, non solo scrissi le didascalie, ma creai anche una storia collegata con le immagini. La maestra, allibita e sorpresa, dopo un sacco di complimenti mi mise un bellissimo dieci e lode. Il primo anno di elementari andò abbastanza bene, nonostante il mio totale isolamento rispetto agli altri bambini; infatti quando l’anno dopo tentai un avvicinamento con loro, fu l’inizio della mia storia contro il bullismo. E da quel momento in poi fu un continuo cadere in un grandissimo buco nero.

A nove anni iniziai il mio primo percorso psicologico, a undici entrai in un circolo vizioso di autolesionismo e bulimia sino ai tredici, dove, una volta iniziate le scuole medie, pensavo che tutte le prese in giro, gli insulti e le percosse, finalmente potessero finire. Inutile dire che quei tre anni furono i peggiori della mia vita. Nonostante tutto però ogni insulto, ogni schiaffo, ogni lacrima avevano costruito dentro di me un grande scudo di forza e maturità con il quale affrontavo (e affronto) le difficoltà.Ma un giorno di marzo 2015 successe qualcosa da cui nessuno scudo poteva proteggermi.

Dopo due settimane ricoverata in ospedale a causa di gravi problemi respiratori, arrivò la diagnosi che cambiò per sempre la mia vita: «Giada, hai il cancro».

Cancro, ma cosa voleva dire questa parola?

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Nella mia testa sapevo già tutto: durante quelle due settimane avevo detto a tutti che sentivo di avere quello, ma non avevo comunque la più pallida idea di che cosa volesse dire. Cercai qualsiasi notizia sulla mia malattia, sapevo che mi stava lentamente uccidendo e che avrei dovuto curarmi il prima possibile. Così fu: ricovero all’Istituto Nazionale dei Tumori e poi la prima chemio che andò giù che era una meraviglia, lo giuro! Non sentii praticamente nulla: entrai in carrozzina  senza avere la forza di fare niente,uscii saltellando. Ma davanti a me c’erano ancora sei lunghi mesi di terapia. Siringa dopo siringa, seduta dopo seduta, il mio corpo iniziò lentamente ad appassire, insieme alla malattia.

Ero finita sul fondo del fondo. Un giorno, però, ero sdraiata sul letto ancora tutta dolorante, pensai al fatto che ero sola e che da ormai due mesi la mia vita si svolgeva in un ospedale, ragionai su molte cose. «Sai cosa Giada? Ma perché non muovi il culo e fai qualcosa? Hai la possibilità di vivere questa vita, stai combattendo per cosa? Per stare sul letto?».

La mia vera lotta non era contro il cancro, ma contro me stessa. Piano piano iniziai a realizzare quei piccoli sogni che avevo, come incontrare persone del mondo del web e del cinema che stimavo, viaggiare e poter essere felice.

A dicembre 2017 compivo due anni dalla guarigione della mia malattia. Due anni in cui ho ricevuto carezze e schiaffi, due anni in cui ho ripreso la mia vita e l’ho persa allo stesso tempo, come granelli di sabbia fra le mani. Oggi sono qui a raccontarvi la mia storia, ma sono qui anche per dirvi che Giada ce l’ha fattaVivere la propria vita come viene, dagli eventi più terrificanti ai più gioiosi. Andare avanti, anche se le persone che ami se ne vanno via, in un modo o nell’altro. Godersi le piccole cose che abbiamo, dal sorriso dei nostri cari, alle cose imbarazzanti che ci succedono.

Oggi, dopo tanto tempo, posso dire che mi amo. Tutti dovrebbero poterlo dire.

 P.S.: Sì, sono diversa e ne vado fiera.

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