La Lettera di Ivan: il bullo che chiede scusa!

Di Ivan, volontario B.LIVE

Vi racconterò ciò che penso mi abbia portato a percorrere la strada del bullo.

Ero giovane, vivevo in un quartiere periferico di Milano, con un tasso di delinquenza tra i più alti di tutta la provincia (quartiere Tessera di Cesano Boscone). Come molti dei bambini che vivevano lì, giocavo per strada con altri miei coetanei, come me figli o fratelli di detenuti. Passavamo il tempo nel modo più disperato: i primi furtarelli al supermercato, rubavamo gli stemmi delle auto e ogni sorta di teppismo giovanile che ci offriva la strada.

Eravamo un po’ come dei cani randagi, (non è un bel paragone, ma è così che mi rivedo a qui tempi) ci azzuffavamo per ogni minima discussione. Uno dei divertimenti più in voga della mia adolescenza, o meglio, quello dei ragazzi più grandi, era di farci azzuffare e scommettere su chi di noi fosse più forte.

Da cani randagi eravamo passati a cani da combattimento, un bel passo avanti

Uno dei fattori scatenanti che mi condussero sulla strada della violenza, è stato l’incontro/scontro con dei ragazzi più grandi di noi, alla fermata del pullman. Un fantomatico gruppetto di ragazzotti più grandi di noi, tutti ben vestiti, con degli sguardi che incutevano timore, incominciarono a spintonarci, a offenderci, volarono i primi schiaffi e ad alcuni di noi venne sottratto il portafogli. Lo ricordo come se fosse avvenuto ieri: stava per giungere il mio turno, fortunatamente poco prima di ricevere il primo colpo, uno di loro mi riconobbe e fermò il gruppo dicendo che ero il cugino di un suo caro amico.

Feci una promessa a tutti loro, ma specialmente a me stesso, quel giorno ne uscivo sconfitto, ma un domani me l’avrebbero pagata a caro prezzo.

Da quel giorno cambiai: mai più avrei permesso a qualcuno di umiliarmi o anche solo di incutermi un po’ di timore.

Diventammo così bastardi che ce la prendevamo con tutti, anche con un giovane portatore di handicap. 

Ricordo in particolare un ragazzo (Giacomo: non era come noi, era tra i primi della classe e non aveva origini meridionali) a cui credo di aver fatto passare la peggiore delle adolescenze. Ogni giorno era obbligato a portarmi la merenda che gli preparava la madre, farmi i compiti, rubare i soldi dal portafoglio del padre e portarmeli, abbassare la testa quando passavo e ogni altra sorta di violenza gratuita; e se per caso non faceva una di queste cose, per lui si aprivano le porte dell’inferno, (anche se trovavo comunque sempre una scusa per picchiarlo).

Ricordo di avergli rotto ben due volte lo stesso dito della mano perché si era permesso di venire a scuola senza i miei compiti fatti; un’altra volta lo feci stare per tutte le ore di lezione seduto per terra davanti a tutti gli altri compagni di classe, e nessuno si permetteva di proferire parola, neanche il professore. Sapevano con chi avevano a che fare, minacciavo anche loro. La volta più divertente è stata quando l’ho legato a una panchina un po’ isolata del parchetto vicino alla nostra scuola. Lo ritrovarono alle 10 di sera, anche i carabinieri di Cesano lo cercavano. Cambiò scuola. Ma sapevamo bene dove abitava e nei pomeriggi in cui ci annoiavamo, lo andavamo a cercare nel suo quartiere per umiliarlo e picchiarlo davanti a tutti i suoi amici. Si trasferì a casa dei nonni.

Non lo rividi mai più. Altri presero il suo posto. Oggi, con la giusta maturità acquisita, mi rendo conto di quanto non sia stato corretto regalare tanta violenza gratuita e chiedo scusa a tutte quelle persone a cui ho inferto sofferenza e dolore. Scusatemi.

Il Bullo che non balla più.